Il sindacato spera in un miracolo

Pubblicato il da sandro cherenti

                    REGIONE AUTONOMA DELLA SARDEGNA

CAGLIARI 18.01.2012

 Mentre i lavoratori disperati presidiavano l’aeroporto, la vertenza faceva ufficialmente il suo ingresso nei palazzi della politica. Questa volta però sarà molto più difficile per governo e sindacati, fare il bis di due anni fa. Non è cambiata Alcoa. È cambiato il mondo. Ufficialmente partiti e sindacati sono concentrati nella difesa dell’esistente e nel prosieguo delle produzioni di alluminio «con Alcoa o con un altro operatore». Ma la realtà è più complessa e il futuro dello stabilimento e dei suoi 501 addetti, è sempre più appeso a un filo. Il segretario del Pd Bersani, al termine di un incontro con gli amministratori locali e i parlamentari del suo partito ha annunciato che investirà direttamente il premier del problema. Cappellacci, da parte sua utilizza il binario della difesa dell’esistente e del progetto del futuro, per chiedere a Monti di non lasciare soli i lavoratori e il territorio A queste posizioni si somma quella del sindacato: da ultimo la Fiom-Cgil che con la segretaria nazionale Laura Spezia ricorda che «non si può consentire la cancellazione della produzione di alluminio primario in Italia, una produzione che è fondamentale per il sistema industriale del nostro Paese. Il Governo deve imporre alla multinazionale di continuare la produzione, facendola recedere dalla decisione di chiudere lo stabilimento. Il Governo, che ha affermato l’importanza strategica della produzione di Portovesme, deve convocare subito un tavolo con la presenza dei vertici di Alcoa». Il punto è che questo tipo di approcci al problema rischiano di far perdere la dimensione reale del problema, che non è nazionale, ma globale, come ha ribadito il prefetto di Cagliari nell’incontro con i lavoratori. Due anni fa lo scontro era tra Alcoa, che voleva un prezzo dell’energia più basso per rimanere in Italia e il mondo istituzionale che è riuscito a fare quasi le carte false per mettere su un sistema tariffario che consentisse ad Alcoa di rimanere. Allora si è trattato, ora non più. Perché la recessione mondiale obbliga i grandi colossi dell’alluminio a tagliare i rami secchi per mantenere il prezzo stabile. E noi rappresentiamo uno di quei rami. Secondo un report del gruppo Macquarie, una delle società di consulenza australiane più attente al mercato dei prodotti primari, nei prossimi mesi i norvegesi Norsk Hydro, e Rio Tinto, tra i maggiori competitor di Alcoa, chiuderanno uno stabilimento della stessa capacità di Portovesme. I cinesi, già oggi lavorano in perdita. I russi sono pronti a ridurre le produzioni. Con questo scenario, la scelta di Alcoa, che ha chiuso anche impianti in Usa, non è negoziabile, come stanno ripetendo da settimane i suoi dirigenti; tantomeno perché Alcoa sta riscaldando i motori per grandi impianti in Arabia e ha avviato quello in Islanda. Ma perché Alcoa chiude Portovesme e mantiene aperti due piccoli impianti in Spagna di La Coruna e Aviles? Non perché gli spagnoli sono simpatici, o affidabili, ma per un motivo banale: in Spagna Alcoa acquista l’energia (il 40 per cento del costo del lavoro globale del ciclo dell’alluminio) a un prezzo vicino ai 30 euro dalla spagnola Endesa (società del gruppo Enel). Qui il prezzo è leggermente più alto e soprattutto non è bloccato per un lungo tempo. A dicembre il complesso sistema tariffario che è riuscito ad abbattere miracolosamente il prezzo del chilowattora per Alcoa, scadrà e l’Unione Europea già due anni fa disse senza incertezze che non sarebbe stato prorogato per alcun motivo. Il costo dell’energia è l’unico motivo del’addio di Alcoa? No. È l’intero sistema infrastrutturale (la chiusura di Eurallumina in testa) che è caduto a pezzi e che ha portato a una decisione già possibile due anni fa ed evitata per ragioni diplomatiche più che industriali. A fronte di questo scenario in questi giorni c’è un continuo rincorrersi di voci su possibili acquirenti dell’impianto. Purtroppo i tempi e la logica non vanno in questa direzione. La fabbrica non è una vettura che può essere periziata in poche ore. Quell’impianto è un mostro che si estende su decine di ettari, e una sua normale valutazione ha bisogno di mesi di lavoro. A meno che Alcoa non decida di svendere l’impianto a un acquirente avendolo già ammortizzato. Ma chi sarebbero i compratori? Una delle grandi società produttrici di alluminio, le stesse che in queste settimane stanno programmando di ridurre le loro produzioni? Oppure altre multinazionali dei non ferrosi? Il punto è che quell’impianto ha come unico vantaggio insito, quello di avere una tariffa elettrica speciale sino a dicembre. Basta: dall’altro ha solo problemi, compresi quelli ambientali. Impedire ad Alcoa di scappare è impossibile, ma è doveroso legarla ai suoi doveri verso le comunità sarde e la sua natura. Risulta che questa sia la carta che il governo è pronto a giocare: un forte progetto di bonifica, nel quale impiegare i lavoratori che non possono essere accompagnati alla pensione, con la loro riqualificazione e l’impegno, anche finanziario della stessa Alcoa, che si sommerebbe ai fondi Ue proprio destinati alle bonifiche industriali. Un progetto più difficile di quelli già in cantiere da decenni, come a Bagnoli o a Marghera, che non trova concorde e unito il sindacato, ancora alla ricerca di marchio che si possa sostituire ad Alcoa.(g.cen.) 

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